Le Valli Grandi Veronesi

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C’era una volta, all’incirca un milione di anni fa, un grande golfo marino racchiuso tra le Alpi e gli Appennini che, con il passare dei millenni, si riempì di sfasciume morenico e detriti grazie all’azione combinata dei fiumi, dei torrenti e dei ghiacciai. A causa di questa opera di riempimento provocata dalla natura, il mare cominciò a ritirarsi lasciando posto a quella che noi oggi conosciamo e chiamiamo Pianura Padana.

Anche la pianura veronese si è formata e modellata come quella Padana seguendo l’andamento dei corsi d’acqua che la attraversano e la si può delimitare tra il fiume Tione e il fiume Guà considerando che si divide in tre zone ben distinte: l’Alto Agro Veronese del tutto ghiaioso, l’Agro Veronese in gran parte sabbioso e le Grandi Valli Veronesi e Ostigliesi che occupano una estesa depressione sabbiosa e paludosa.

L’Alto Agro Veronese comprende il conoide del fiume Adige e la piana ghiaiosa rimasta dopo la formazione delle colline moreniche nel corso delle varie glaciazioni. Esso è costituito da materiale di origine atesina, da detriti morenici e da un sottile stato di terreno fertile.

Lungo il confine tra l’Alto Agro e l’Agro Veronese, si trova la linea delle risorgive che si estende dal fiume Mincio fino all’Adige. In questi luoghi le acque affiorano dando vita a fossi e fiumi che attraversano da Nord verso Sud-Est la fertile e produttiva terra di pianura, divenuta così perché la presenza dell’acqua, la laboriosità e l’intelligenza umana si sono, per molti secoli, coalizzate.

Una storia a parte la meritano le Grandi Valli denominate così nel primo progetto di bonifica redatto nel 1852 dall’Imperiale Regio Governo Austriaco e che da allora conservano questo nome.
Queste terre sono sempre state ricche di acqua che però, con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, andarono sempre più ad impaludarsi. Quando Venezia le conquistò, non bonificò i terreni acquitrinosi perché li considerava luoghi difficili e pericolosi da attraversare, sia per gli amici che per i nemici.

La bonifica terminò nel 1928 e finalmente tali terre, infrigidite dal perdurare dell’acqua divennero, una volta dissodate, fertili. La costruzione di argini, gli scassi di terreno e le arature portarono in superficie la preistoria e la storia della pianura veronese abitata fin dal Neolitico da popolazioni della cultura palafitticola e, in alcune zone, di quella terramaricola.

Fu abitata dai Veneti, dai Celti e, tra il fiume Tartaro e il fiume Mincio, dagli Etruschi.

Venne occupata e suddivisa in centurie dai Romani, subì le trasmigrazioni germaniche e l’onta barbarica degli Unni; fu territorio scaligero, conteso ad Ovest dai mantovani e a Sud-Est dai padovani. Per un breve periodo fu territorio visconteo per poi divenire veneziano.

Subì le scorribande e le devastazioni di vari eserciti e, nel 1866, venne annesso all’Italia. Testimonianze preistoriche e protostoriche si trovano nei musei di Gazzo Veronese, di Isola della Scala, di Legnago, di Cologna Veneta ed in altri musei: Concamarise, Bovolone, Buttapietra e Arcole dove è esposta la parte storica a quella etno-grafica che rende ancora viva la cultura contadina tramandata per secoli e che si è scontrata più volte con la cosiddetta Storia.

La pianura veronese risulta, in alcune zone, fortemente antropizzata ma l’uomo è riuscito a conservare e a rivitalizzare alcuni luoghi umidi presenti lungo i corsi d’acqua, intorno alle pozze risorgive e alle ultime paludi rimaste, come la palude del Busatello, la palude del Brusà e l’estesa zona risorgiva del fiume Bussè.

Il fatto stesso di riprendere la conoscenza del territorio, ha sviluppato una ricerca verso la propria storia, le proprie tradizioni e la propria cultura cercando di far conoscere, al di fuori del proprio ambiente, le peculiarità che offre la variegata pianura veronese e che presenta, stranamente, fantastici orizzonti verticali.

L’ambiente ha contribuito tantissimo nel forgiare la cultura di genti operose che nella povertà dei mezzi è riuscita ad ingegnarsi per superare le difficoltà quotidiane. La realtà contadina sviluppatasi nel periodo romano, viene, con tutt’altre regole, ripresa nel periodo longobardo, e sviluppata nel periodo storico denominato monachesimo. Da allora si può vedere la lenta ma costante trasformazione di questo mondo, che a volte a noi sfugge e banalmente lo consideriamo ormai passato. A livello temporale è vero, ma la tradizione e la cultura contadina in tale lembo di Pianura Padana, attraversato dal fiume Adige, sono ancora presenti e lo possiamo constatare attraverso alcuni elementi come l’architettura, la tecnologia, la fede religiosa, la famiglia e, anche se da poco riportate in auge, le abitudini alimentari.

Alcune di esse sono radicate nella quotidianità, mentre altre sono state riprese perché il gusto è memoria. Perciò avere ancora l’orto, poter allevare animali da cortile o recuperare la tradizione del maiale sono operazioni culturali che si esprimono molto bene prendendo in prestito le parole di Gino Brunelli “La cucina come assieme di consuetudini e di regole custodite dalle tradizioni, è uno dei mezzi di illustrazione più efficace per chi voglia disegnare il volto di una società, ed è molto di più di un fatto di costume”.

Il progresso tecnologico ha sradicato, purtroppo, certe tradizioni, ma in cucina la cultura rurale ha resistito. E’ una cucina povera, semplice e genuina, che trae i suoi ingredienti dalla campagna, dall’orto e dall’aia.

(testo di Augusto Garau)